Il Dizinformatode

Il Sogno

Due Febbraio Duemiladieci

Cammino alla sinistra di un rigagnolo che, scorrendo negli anni, aveva scavato la roccia marrone formano un'insenatura di almeno due metri. Sento la voce di mia madre che ci spiega che quella non era la cascata che eravamo venuti a vedere, ma che comunque era molto vicina. Qualche metro più avanti si apre un baratro alto migliaia di chilometri in cui il ruscello libera la sua acqua in un bacino simile al mediterraneo. Si vede tutta l'Italia dalla prospettiva di Tripoli. Io cerco di fare una foto, ma la sardegna veniva tagliata dal bordo del baratro. Allora Chiara si offre di sporgersi per fare una foto migliore e mi chiede di tenerla per le cinghie dello zaino onde evitare che cada. Arriva di corsa Davide Lovato e si lancia oltre il bordo con un avvitamento orizzontale. Tutti quanti erano presi dal panico. Ci sporgiamo con macabra curiosità e lo vediamo appeso a qualche roccia sporgente. Era rimasto ancora in posizione orizzontale con i piedi appoggiati ad altri sassi. Sembrava fosse disteso su di un'amaca mentre ci spiegava quanto quel gesto fosse facile fa riprodurre. Io non ero più convinto che si potesse vedere l'Italia da quella prospettiva. Era troppo piccola. Torno indietro accompagnato da qualcuno. Mi ritrovo in una stanza di legno con le pareti di carta. Dentro la stanza c'era la sagoma dell'Italia disegnata con alcuni oggetti dal carattere mistico. Io ci cammino sopra come per verificare che fosse a misura d'uomo. Mi sveglio solo nel letto dei miei. Avevo la testa sotto il cuscino della piazza di sinistra dove di solito dorme mio padre, e i piedi nella piazza di destra dove di solito dorme mia madre. Vado a scuola. Sono in un'aula delle scuole medie e si sta tenendo una lezione sulla validità delle fotografie scattate durante le missioni lunari, in particolare sul caso degli indicatori a forma di + che nelle foto si trovano a volte dietro gli oggetti che si presumono essere stati ritoccati. Io sono seduto oltre la terza fila di banchi. Le file sono suddivise in banchi da due posti, mentre io mi trovo in un banco da tre (probabilmente la classe era formata da un numero dispari di persone). La professoressa manda me e una ragazza della prima fila a prendere delle cose fuori dall'aula. Torniamo entrambi con due borse. La mia conteneva una serie di scartoffie e un manuale anticomplottistico sulla questione dello sbarco sulla Luna, mentre l'altra ragazza aveva trovato il manuale che sosteneva la teoria del complotto. In un primo momento avrei voluto fare cambio, ma essendomi già documentato pesantemente sulla teoria complottistica, in fondo non mi dispiaceva leggere qualcosa a riguardo dei sostenitori della versione ufficiale. Prima di svegliarmi veramente, una suadente voce femminile fa vibrare i timpani della mia mente pronunciando un nome: Martin Ryan.

Sedici Dicembre Duemilanove

Salgo le scale di una casa. I gradini si fanno sempre più stretti e le stanza sempre più piccole. Proprio sotto il soffitto c'era una stanza di legno nella quale Chiara quindicenne stava parlando con Giorgio e Peronio ventenni. Succede qualcosa per cui con qualcuno devo cercare la strada per arrivare da qualche parte. La strada è circondata da campi d'erba di un colore verde intenso. Sopraggiunge un palazzo altissimo e la strada inizia a discendere in una galleria che percorre il centro del palazzo. L'inclinazine della strada ha raggiunto i 45 gradi e la strada ha 4 corsie. Ad un certo punto non sono più in macchia. Sto scivolando verso il basso per effetto dell'inclinazione dela strada, e vedo nell'altra corsia Giorgio che stava per essere attaccato da un enorme biorobot alto 3 metri che stava ricurvo a causa dell'altezza ridotta della galleria. Si torna alla casa. Io dalla finestra dell'ultimo piano vedo Giorgio e Peronio che stanno facendo dei sani giretti a cerchio nel cortile di sotto. Mi sento infastidito dal loro atteggiamento senza percepirne l'effettivo perché. Scendo di corsa le scale e prelevo un pezzo dalla ruota anteriore che fa sgonfiare la gomma. Il tutto si conclude con una serie di imprecazioni.

Sei Dicembre Duemilanove

Orale di meccanica quantistica, ma di gruppo. C'era anche Cel8 che stava studiando con me una formula molto complicata. Non mi ricodo molto, ma era una radice quadrata con argomento una frazione con denominatore infinito, sommata ad una frazione elevata all'infinito. Poi compaiono delle larve giganti volanti che sanno passare attraverso i muri, ma se passano un muro più di due volte, si ritrovano in un gigantesco stanzone da dove poi ripartono per diffondersi. Lo stanzone ha a volte le sembianze di una fogna londinese, e ai lati del flusso fognario, ci sono donne e uomini nudi occupati in atti orgiastici. Alcune larve si uniscono e formano una larva madre di colore verde. L'orale di meccanica diventa l'unica soluzione al problema. Un documentario stile Piero Angela sull'argomento illustra i movimenti meccanici del nemico.

Sette Gennaio Duemiladieci

Devo prendere un aereo. Io, Giuliana, Yan e il Luva passiamo il check-in che è rappresentato da una porta marmorea, simile all'uscita di un tempio bianco scavato nella roccia. Scalinate bianche rovinate dall'erosione delle piogge mi conducono in uno spiazzetto erboso sottostante, stretto tra due pareti rocciose. Mi giro e leggo, scolpita sulla roccia, una serie di parole in lingua latina. Poi ne leggo altre scritte su una colonna rocciosa posta alla stessa altezza dei miei compagni. Proseguendo ci ritroviamo con l'acqua al livello delle ginocchia. Stiamo camminando in un rigagnolo secondario di un fuime simile al Tagliamento durante la stagione secca. Alla destra, delle rive erbose che sono separate dal letto di sassi bianchi tramite ciotoli scuri e instabili della lunghezza di circa un metro. Si intravede in lontananza un'isola simile a quelle che si possono trovare sulle coste croate vicino a Parenzo. Capisco che quella è la meta da cui potrò prendere l'aereo. Mia madre vestita da befana mi indica la via attraverso l'acqua bassa. Noto un punto in cui il letto del fiume si incurva a formare due uteriori rive per il flusso principale dell'acqua. La presenza di transenne mi fa credere che sia una costruzione di tipo artificiale. Salgo sulla gobba e mi avvicino alle transenne. Mia madre mi insegue e, cercando di togliermi da quella posizione di pericolo, cade nella violenta corrente e viene trascinata in un punto in cui il torrente sembrava entrare in una fornace. Avanzo fino all'imboccatura di questa struttura di roccia. Tento di recuperare mia madre dalle acque e, con un gesto del braccio che sembra quella di un pescatore che estirpa il pesce dal suo ambiente naturale, riporto sulla terra ferma due bambolette; due riproduzioni fedeli e in scala 5:1 della principessa Leila e di Luke Skywalker. Succede qualcosa di imprevisto per cui devo tagliare la testa alle bambolette. Mi ritrovo in mano un'accetta e la uso per compiere la decapitazione. Poi mi covinco che devo continuare con i lì presenti.

Tredici Gennaio Duemiladieci

Cammino con Gozzi al fiera. Mentre raggiungiamo l'entrata secondaria del supermercato (quella che si affaccia sul bar), scorgo Susanna. Presumo che stesse lavorando per sigillare gli averi negli apositi sacchi di nylon. Sulla destra era presente un enorme muro bianco in cartongesso. Io mi avvicino a lei, e dopo un brevissimo scambio di sguardi e abbracci, la bacio con passione. La telecamera esterna inizia a ruotare in senso orario mentre sento i pensieri di Gozzi che si domandano come tutto questo fosse possibile. Lei mi invita a seguirla in uno sgabuzzino esterno. L'unica componente strutturale che potesse garantire in qualche modo la privacy era la porta. Le pareti erano fatte da lunghi teli bianchi semitrasparenti che piovevano dal soffitto. Il materiale era simile a quello utilizzato per gli stendardi pubblicitari dell'Euritmica. I piccoli fori utili ad evitare l'effetto vela dei teloni permettevano anche la visione di un giardinetto con sentiero battuto e panchina sulla destra, e di un boschetto dinanzi. Il lato sinistro dello sgabuzzino è adiacente e congruente in lunghezza ad una parete del fiera. I muri che fanno da angolo con la parete divergono di circa un terzo di angolo retto per alcune centinaia di metri e costituiscono il perimetro esterno della struttura. Io mi sento molto in imbarazzo e non voglio spogliarmi. Una bambina che avrà avuto non più di cinque anni scruta qualcosa nella mia direzione. La osservo attravesso i forellini. Ha un vestito rosso con una simpatica gonna a fisarmonica rifinita da bordini bianchi. L'interfono del supermercato comunica la necessità di un assistenza in un reparto. Io ritengo che sia una chiamata per Susanna. Mi dice che l'annuncio non è rivolto a lei. Continuo a non sentirmi a mio agio ed esco dalla porta. Mi ritrovo in un giardino soleggiato, seduto su un'enorme struttura di marmo bianco di dimensioni circa dieci metri per cinque. L'area rettangolare è suddivisa in tre parti. Al centro c'è una discesa larga circa due metri che porta all'altezza del primo spiazzo parallelepipoidale. Questo si erge per circa un metro e mezzo di altezza alla destra della descesa. A sinistra c'è invece un parallelepipedo alto circa tre metri, anch'esso adiacente alla discesa, ma senza vie d'accesso. Io sono disteso sui gomiti nella parte centrale. Sul parallelepipedo più basso ci sono una decina di persone che si stanno scaldando come lucertole; su quello più alto ce ne sono altretante, tra cui Marco. Le due squadre avevano scommesso sull'esito delle mie scelte nello sgabuzzino. Quando la squadra alla mia destra ha capito che con Susanna non era capitato nulla, ha iniziato ad esultare. Uno di loro ha arrotolato un foglietto di carta in modo che assomigliasse ad una sigaretta e lo ha lanciato su di un compagno disteso sputandolo con la bocca. Dopo alcune lamentele sorridenti, ha ripetuto il gesto utilizzando le palpebre al posto delle labbra. Me ne sono andato mentre guardavo Colombatti. Sono in università con il Luva. Vedo una persona che mi assomiglia molto uscire dai bagni che stanno alla destra dell'entrata principale. Lo osservo con stupore dalle macchinette. È proprio uguale a me. Faccio in modo di trovare una traiettoria per andargli addosso. Siamo naso contro naso e ci fermiamo. Lui è mè. I tre Luca camminano insieme nel corridoio in direzione del bar. Il mio alter ego sta alla mia sinistra in posizione più arretrata, e il Luva a scalare. Mentre cammino cerco di girarmi per porre all'altro me alcune domande. Gli chiedo se era al corrente di essere me, e di appartenere al mio sogno. Capisco dalla sua inespressività che non è un personaggio molto loquace. Fuori dal baretto dell'univerità, proprio di fronte all'ingresso, era stata allestita una zona con due divani bianchi e un tavolinetto in legno scuro al centro di essi. C'erano parecchie persone intorno. Io mi giro per l'ultima volta verso il mio alter ego e, alzando la voce, gli chiedo di rispondermi sul suo stato di coscienza della realtà che lo circondava. Ero parecchio alterato. Mi avvicino ai divani. Quello più lontano dall'ingresso del bar è occupato da Alessio, il quale sta seduto al centro di esso in silenzio. Sul tavolo era distesa una ragazza bionda, non tanto alta, dalla corporatura un po' tozza. Le chiedo se sapeva di essere in un sogno. Lei non sa rispondere. Allora le levo la gonna di jeans con un gesto sia delicato che cruento. La ragazza si spaventa e mi chiede cosa stesse succedendo. Nessuno dei presenti sembra mettere in discussione quello che sto per fare. Lei si rilassa istantaneamente e decide di accudirmi tra le sue cosce. Durante un picco di piacere, sforza gli addominali ed alza la testa dal tacolo per sussurrarmi qualcosa nell'orecchio destro prima di ricadere sul tavolino. Le sue parole sono state: "Restio alle leggi del Cratere". Perdo il controllo del sogno e i miei occhi vedono per alcuni secondi uno scaffale della mia vecchia cameretta con dei libri ben posizionati. Apro gli occhi nella realtà di camera mia, ma il sogno continua per le mie orecchie che sentono sirene di ambulanza e polizia sfumare nel rumore del termoconvettore.

Venti Dicembre Duemilanove

Entriamo in un Hotel ***** e saliamo all'ultimo piano del grattacielo. La sommità dell'edificio è una specie di radura grande qualche ettaro e la stanza è una casetta rettangolare arredata con un tappeto rosso, un camino e un tavolo tondo in stile ottocentesco che copre un vaso di fiori secchi appoggiati su un piedistallo. La stanza è chiusa da un lato da una vetrata che da sul cortile esterno e il cortile è circondato da un recinto bianco che lo separa da quello del vicinato. Nel giardinetto adiacente ci sono palloni da spiaggia e una piscinetta per bambini. Mi giro e la vedo ridere divertita dal fatto che il fuoco nel camino è a forma di elefante e camaleonte. Io non posso fare altro che abbracciarla affettuosamente. Dopo un po' cambia espressione e mi dice che è stata avvertita dalla reception che c'è un suo caro amico ubriaco al piano di sotto che va aiutato. Scendo al piano terra. L'atrio dell'Hotel era l'ingresso del Marinelli e il tizio moro era tenuto in piedi da tre altri amici. Io li accompagno fuori dalla porta perchè in quel momento c'era la convinzione che fosse la soluzione migliore per fargli passare la sbornia. Decido allora di tornare in stanza e, mentre cerco l'imboccatura delle scale per risalire in camera, penso per un istante a Gozzi. Vengo immediatamente spinto a riprendere lucidità dal fatto mi viene detto da un'addetta alle pulizie che parte delle scalinate erano scomparse. Decido allora di risalire ciò che rimane delle scale arrampicarmi a forza di braccia dalle ringhiere di colore blu. Tornato sulla cima non riesco più a trovare la mia stanza. Ci sono delle strade polverose e della gente che osserva il cielo. Mentre continuo a camminare guardo in alto. Si potevano vedere, sospese a varie altezze, righe parallele di scotch marrone per l'imballaggio dei pacchi. Mi ero convinto che erano Scie Chimiche e, mentre davo informazini a riguardo ai passanti increduli, sono andato a sbattere contro una serie di righe di scotch impigliandomi per un istante. Ho provato quel tipico fastidio di quando si mette la faccia in una ragnatela che penzola da un albero. In questo stato di parziale inquietudine vengo accompagnato da qualcuno alla casetta e lei apre la porta di cistallo coperta da un tendone bianco, e mi fa entrare.

Venticinque Settembre Duemiladieci

Salgo le scale di una palazzina. Sono in marmo grigio, e il corrimano è in legno massiccio. Le rampe non seguono la parete ma si intrecciano l'una sull'altra concludendo la loro corsa su alcuni spiazzi da cui si può accedere agli appartamenti. Pensavo che Michele abitasse al penultimo piano, ma poi mi ricordo che si era trasferito all'ultimo. Arrivo di fronte alla porta di casa sua. Mi apre e mi accompagna dentro. L'appartamento era molto stretto e lungo, ed era completamente addobbato da festoni natalizi. Alla mia sinistra, un caminetto in mattone, alla destra una parete completamente adibita al presepio. In fondo vedo Michele che si avvicina alla cucina, completamente bianca e dorata, luminosa, imbandita. Arriva Giorgio e mi accompagna fuori sul terrazzino. Oltrepassiamo la porta-finestra sulla sinistra per fumare una sigaretta. Ci stringiamo sulla piccola terrazzina di forma semicircolare e notiamo che la ringhiera (non copriva tutta la terrazza, ma solo la parte più esterna) era piegata verso l'esterno e stava per cedere, nonostante fosse stata fissata nel cemento armato. Giorgio le dà un calcio e la fa scivolare sulla neve che si era accumulata formando una sella che dalla terrazzina discendeva una ventina di metri più in là. Era notte, il paesaggio lunare lasciava intravvedere alcuni cantieri industriali circondati da muri in cemento grezzo. Torniamo dentro. Ellero mi salta addosso e tenta di farmi i dispetti mentre siamo distesi per terra vicino al caminetto. Lo allontano e torno fuori. Mi butto sulla neve dalla parte sinistra della terrazzina. Giorgio mette un piede sula neve, sempre da quella parte, e la neve si scioglie facendolo scendere come se fosse su un ascensore. Mentre sta scendendo, la neve disciolta svela delle lamine di ferro arrugginito, piegate a semicerchio esattamente come la terrazzina, disposte sotto di essa ad una distanza di circa trenta centimetri l'una dall'altra. Ogni tanto, discendendo, giorgio mette un piede all'interno del semicerchio, rischiando di rimanere incastrato con la gamba, ma riesce sempre a togliere il piede in fallo con un movimento fulmineo. Scendo in una conca più buia e vedo le figure nere di due persone che camminano in una zona più elevata che coincideva con l'orizzonte. Risalgo a fatica la neve e mi rendo conto che dovevo andare da Alessio ad avvertirlo che era un sogno. Mi ritrovo nella zona dei concerti di capodanno. Un palco in basso era costituito da una rete da circo. Una batteria rossa teneva il tempo ad un bassista e ad un chitarrista. Il palco in alto era pavimentato con pannelli di legno. Vedo Luca il chitarrista di Linda che sale su un seggiolino. In realtà è una fionda gigantesca. Prende la rincorsa allontanandosi in direzione opposta a quella del palco di rete, e poi si proietta su questo. Per sfortuna, atterra nell'unico punto in cui la rete era sfibrata. Lo vedo atterrare col sedere sul cemento e temo la paralisi. Mi siedo vicino a Fabbro e ad una ragazza, con i piedi a penzoloni dal palco in alto. lui mi dice che queste cose si devono fare. Poi guardo nuovamente verso il parlo di rete, e vedo l'amico che corricchia zoppicando in direzione del palco in alto, per ripetere l'impresa. Era il suo compito. Mi ritrovo di giorno a camminare all'interno di una roggia artificiale accompagnato alla mia destra da Pellegrin e Peronio. La roggia è larga meno di tre metri, e davanti a me vedo un arco di cemento di dieci centimetri di spessore che collega le due sponde, anch'esse di cemento, ma più sottili. Sotto l'arcata c'è un'enorme blocco di cemento che si muove velocemente a destra e a sinistra, e all'interno del blocco, c'è un'elica di nave che gira a grande velocità. I due miei compagni mi stavano rallentando molto. Prendo la testa di Pellegrin e gliela premo a forza nell'elica. Poi, sapendo che era un sogno, uccido allo stesso modo anche Peronio. Passo attraverso l'arco anche se il blocco avrebbe dovuto schiacciarmi (era un sogno. se non volevo che il blocco mi schiacciasse sul bordo, bastava non guardarlo). Noto alla mia sinistra un'impalcatura disordinata alta circa quattro metri. C'erano delle coperture ondulate in metallo. Sapevo che sulla cima dell'impalcatura avrei trovato Alessio. Mi arrampico con la sensazione di tagliarmi sulle lamiere, ma non succede. In cima c'è Anzil. Gli dico che è un sogno. Avvicino la mano al mio naso e vedo che esce sangue. Dico ad Anzil che se il sangue dovesse essere anche reale, sporcherei tutto il cuscino. Lo saluto e decido di svegliarmi.

Ventisette Gennaio Duemilaundici

Abbandoniamo la mia macchina in un affollato parcheggio sterrato. È quasi notte. Entriamo in un edificio e facciamo qualcosa che non dovevamo fare, tanto che siamo costretti a scappare. Tornati al parcheggio, cerco la macchina premendo ripetutamente il pulsante dell'apertura centralizzata. Purtroppo non vedo accendersi luci arancioni. Decido di cercare l'auto con lo sguardo e la trovo in alto, su una specie di parcheggio sopraelevato. Dal quel parcheggio non si esce. L'uscita è sbarrata con uno di quei paletti che impedisce a carrelli e passeggini di salire sulle scale mobili dei centri commerciali. A destra la scarpata alta 2 metri che porta al parcheggio di sotto; a sinistra un fiumicello affiancato da un minuscolo sentiero pedonale. Stiamo scappando da qualcosa. Io imbocco tranquillamente il sentiero a sinistra benché l'auto sia molte volte più grande. La macchina non cade nel fiume sottostante sorretto dalla mia consapevolezza istantanea che si stia trattando di un sogno. Mi ritrovo da solo in una gigantesca casa a stanza unica. Mobili in legno chiaro e pareti in cartongesso. Trovo nella parete una fenditura larga come una tastiera per computer e alta tanto quanto basta per non far passare i polsi. È ad altezza pavimento. Mi abbasso e vedo che dall'altra parte c'è un'altra ala della casa, questa volta con un corridoio che fa intuire la presenza di molte stanze. Dalla fenditura cola dell'acqua che si raccoglie in una specie di vassoio metallico. Ad un tratto cadono nel vassoio delle biglie. Tante sferette bianche e nere si organizzano quasi a formare il simbolo del tao. Poi arrivano quelle colorate. Metto le mani nella fenditura e mi ritrovo in mano una pallina per colore. Capisco che questo meccanismo avrebbe aperto un varco. Ma la fenditura non accenna ad allargarsi. Guardo in altro e vedo un'inferriata. Mi arrampico e questa si solleva come un portone medioevale. Sono dall'altra parte. Ci sono tante porte in legno biancho. Oltre ognuna di essa, all'interno di piccole stanze a base quadrata, semplici mobili in legno chiaro (soprattutto armadi) sorreggono giocattoli e peluche dipinti con colori vivaci. Nella penultima stanza in fondo c'è una vetrata. Mi avvicino ad essa e vedo un emozionantissimo panorama. Il campanile di Adegliacco è alto come il grattacielo di 100 piani che lo affianca. Al di sotto delle due imponenti strutture, bellissime casupole in stile medioevale si disperdono a formare la città. Il territorio non è piano, ma leggermente collinare. Il bagliore delle luci delle case e il cielo blu oltremare contrastano piacevolmente. Mi fermo un po' ad osservare. Poi esco e alla mia sinistra vedo un'ultima porta. Sulla porta è appeso il disegno di un volto. Apro la porta... Un letto di morte con all'interno una persona dal viso mostruoso. Una forza mi trascina all'interno della stanza e oltrepasso la parete su cui il letto è appoggiato, finendo continuamente nella stessa stanza. Ad ogni passaggio, il volto dell'uomo invecchia e la luce nella stanza diminuisce. Quando è quasi buio noto in controluce la sagoma di un teschio. Voglio svegliarmi ma non so come fare. Cerco di aiutarmi con la forza della paura, ma non sono abbastanza terrorizzato, allora esco con la mente da quel luogo ma niente, ci ricado dentro. Alla fine chiudo gli occhi e dico: "Mamma".

Ventotto Dicembre Duemilanove

Si arriva nelle Marche. Le Marche sono in Olanda. Montiamo la tenda in un prato e osserviamo un panorama che ha del surreale. Muovo la testa e vedo una persona lontanssima che sta osservando qualcosa da un altopiano erboso che si spezza verticalmente su di una spiaggia di ciotoli bianchi e sabbia ruvida di tipo fluviale. La spiaggia si distende verso il mare e il sole l'abbaglia finché il mio sguardo scruta, al di là del mare, una città tecnologica affollata di grattacieli che si fanno strada tra le nubi temporalesche. Provo del dispiacere e ruoto la testa di un angolo piano. Colline verdi. Dietro di loro, una grande montagna si erge dietro alcune latifoglie che mi nascondono parzialmente il campo visvo. Giuliana ed Enrico mi dicono che bisogna andare. Io li conduco lungo un sentiero tra l'erba e si giunge ad un bivio. Non ho la minima idea di dove portino le strade, ma dato che quella di destra si dirigeva verso la montagna, mi sarebbe piaciuto intraprenderla. Giuliana vuole andare a sinistra. Penso che effettivamente la montagna non si sarebbe probabilmente spostata nelle prossime ore, quindi ci dirigiamo a manca verso un enorme portone verde militare. Si voleva scavalcare il filo spinato sovrastante, ma poi ci si è accorti che il portone ha una porta più piccola da cui passare. A distanza di circa dieci metri ci sono altri portoni, similmente installati. Oltrepassati due o tre di questi, si giunge ad un muro di legno in cui si vedono i contorni di una porta. Entriamo e ci troviamo in una specie di bar. C'è un bancone con dietro una donna bionda di mezz'età che, esprimendosi con una lingua che io ero convinto fosse austriaco, ci invita ad uscire. Capiamo da alcune parole che pensavano fossimo extracomunitari. Le diciamo in italiano che non siamo albanesi, e subito scatta un grande sorriso e ci indica con la mano di avvicinarci al bancone. Mi sento dispiaciuto per il senso di discriminazione, nonostante mi trovassi dalla parte della "razza" favorita. Enrico parla da davanti il bancone e si sporge per farsi sentire meglio. Gli viene dato quello che ci serviva.

Ventuno Febbraio Duemiladieci

Scendo le lunghe scale marmoree che formano un corridoio tra le pareti esterne della torre e il lungo colonnone di sostegno centrale. La struttura è a base quadrata. Mia madre diceva di seguirla, ma ad un certo punto vengo completamente estasiato dalla visione di ciò che riuscivo a scorgere da una piccola feritoia. Mi avvicino sempre di più, tanto che il grigio muro di sassi fluviali e malta scompare dalla mia visuale. Era l'alba. Un prato verde smeraldo tinto dal rosso del mattino, mischiato ad un blu intensissimo di ciò che rimaneva della notte. In un primo momento ho visto una luna a forma di falce proprio sopra l'orizzonte, poi una luna piena più alta nel cielo, ed infine il grande sole che bruciava sulla sinistra. Inizialmente ero un po' stranito dalla presenza di due lune, ma poi vengo scosso dalla volontà di fare una fotografia. Avverto mia madre che sarei tornato di sopra a prendere la macchina fotografica. Cerco di correre il più possibile perché so che il sole si sposta più velocemente di quanto si possa percepire, facendo cambiare la luce del paesaggio in qualcosa di meno paradisiaco. Cerco la mia Canon EOS 1000D. Qualcosa cambia e io non sto più correndo. Sono di nuovo in presenza di mia madre e stiamo risalendo i gradini. Questi concludono la loro corsa su un pianerottolo interno lungo circa 3 metri e largo più di 1 metro, dopodiché ridiscendono dall'altra parte. Dal pianerottolo si può accedere a tre porte bianche; due sul lato lungo e una sul lato corto. Mia madre è preoccupata perché la strada è interrotta e mi dice che forse si può salire ancora. Ma come detto poc'anzi, dal pianerottolo ci sono solo scale in discesa. Io mi siedo su quelle da cui non eravamo saliti. Mia madre mi dice che salgono. Io nego all'istante quell'affermazione anche se ammetto a me stesso una probabilità di un mio errore che poteva derivare dalla prospettiva con cui guardavo i gradini. Ma è impossibile. Ho i piedi appoggiati sui gradini più in basso. Scrollo la testa e prendo le redini della situazione. Apro la porta del lato più breve come se sapessi già che quella era la soluzione. E infatti si apre un passaggio con due file di scale di legno pulito e levigato. Le pareti in questo caso sono strettissime. Ci passa a malapena una persona. Anche il soffitto è molto basso. Le scale sono composte da una mezza dozzina di gradini (tre in discesa e tre in salita) e sono disposte alla destra e alla sinistra di un blocco centrale formato da tre pareti di cartongesso. Due pareti formano il corridoio delle scale, mentre l'altra si erge di fronte a noi. Dal lato aperto si nota che dalla struttura cava fuoriesce una rete di corda di canapa che levita come se fosse un'amaca. Io e mia madre stiamo a carponi su questa rete in coda ad una ragazza dai capelli ricci ed arancioni. Questa pronuncia una parte dell'alfabeto greco come rito per poter scendere da li. Ripeto anche io la stessa procedura non chiedendomi affatto il perché lo stessi facendo. Scendo, giro l'angolo, e si apre un bellissimo e caldo appartamento ricchissimo di oggetti, con divani colorati, un tavolo di legno rovinato, un cucinino ancora da pulire, e almeno quattro persone che parlano e fanno cose sorridendo. Le grandi vetrate permettono la visione perenne di uno splendido panorama. Il pavimento in legno è splendidamente usurato e spesso è coperto da tappeti persiani. Tutto quel disordine sembra il massimo dell'armonia per quel luogo. Si decide di andare. Sembra quasi una fuga. Vedo un ragazzo che si butta di gambe in un buco largo meno di un metro. Guardo il maggiordomo che mi rincuora dicendomi che non c'è pericolo. Mi lancio nel buco. Il canale di cemento grezzo percorre un tragitto a spirale che immagino sia stato realizzato nel cemento che sorregge le scale marmoree. Riesco a scivolare facilmente poiché c'è della neve appoggiata lungo tutto il canale. Ad un certo punto, dopo aver preso velocità, ho un attimo di panico pensando che in effetti il tubo di cemento avrebbe potuto restringersi da un momento all'altro. Mi ritrovo nel polveroso spiazzo antecedente l'ingresso della torre. Vedo due serpenti appaiati che strisciano simultaneamente in direzione opposta all'ingresso della torre, verso due miei amici che mi guardano mentre stanno per venire verso di me. Io li faccio segno con la mano come per dire di fermarsi poiché non avevo ancora capito se erano vipere od orbettini. Il sole era acido e scottante, e il paesaggio desertico era intervallato da montagne rosse e punta ed altopiani simili a quelli del Grand Canyon. Un muretto alto poco meno di due metri, costruito con sassi grandi almeno 50 centimetri e cemento, esce diagonalmente da uno spigolo della torre. È spesso circa un metro ed io vi salgo sopra per osservare meglio i rettili striscianti. Vedo un serpente marrone molto più tozzo che sopraggiunge da sinistra. Questo apre le fauci e inizia a mangiare i due serpenti neri più piccoli che non hanno accennato alla fuga neanche per un istante. Scendo dal muretto e inizio a correre verso i miei amici. Vedo il serpente che mi insegue assatanato. Non riesco a capire come potesse un serpente correre più veloce di me, dato che vedevo che si stava avvicinando. Mi fermo e decido di affrontarlo. Lui fa un balzo mettendo la coda a forma di molla e io lo schivo. Continua a saltarmi all'altezza dello sterno altre due volte, portandosi dalla mia destra alla mia sinistra e viceversa. Ad un certo punto fa un balzo in verticale e lo vedo alto nel cielo finché si posiziona davanti al sole. Ho un po' di paura perché no riesco più a vederlo. Faccio un passo indietro e capisco che se non mi fossi mosso mi sarebbe caduto in testa. Poi fa un ultimo balzo e io, con un calcio volante, l'ho scaraventato dentro una tana che stava dietro di me, ai piedi dell'altopiano. La tana è un distributore cambiamonete. Il serpente vive su due piani e si può vedere dentro la sua casa attraverso due fenditure verticali che rappresentano l'ingresso al piano di sopra,e quello al piano di sotto. Il serpente si trova al piano di sopra nascosto tra un'infinita quantità di bottiglie e flaconi per la pulizia. Al piano di sotto uno degli amici vede un flacone si alcool. Io lo prendo e lo svuoto al piano di sopra dando fuoco a tutto. Poi vado nel distributore di benzina lì di fronte e mentre parlo con il benzinaio avverto l'esplosione. Sono sulla mia vecchia punto verde con Michele Bulfone. Sto cercando di andare a casa. Leggo il cartello d'indicazione per Udine mentre sono fermo ad uno STOP che dà la precedenza ad un vialetto principale. Dò la precedenza e poi parto e mi immetto nella strada. Ma il vialetto è in realtà una roggia, e con la macchina in bilico, dopo aver controllato che non c'era tempo per uscire dal veicolo, io e Michele ci spostiamo nei sedili posteriori per farla stare in strada. Abbassiamo il lunotto posteriore come se fosse un finestrino che si abbassa con la manopola. Usciamo dalla Punto mentre le vediamo affogare. Decido di salvare la vettura e la trascino fuori a forza prendendola dal paraurti posteriori. Mentre le persone incredule osservavano la scena, noto il cartello che indica il vicolo cieco. Sara Bertelle saluta tutto il gruppetto di persone che erano lì. Io ero in macchina e la saluto con la mano.

Ventuno Novembre Duemilaundici

Mi sveglio. Mi metto in piedi sul letto di camera mia, ma noto che la chitarra è appoggiata sul supporto per la tendina della finestra. Capisco che quello è un sogno e voglio svegliarmi, ma non ce la faccio. Mi ricordo di aver appreso da situazioni analoghe che autofustigazioni non funzionano in questo caso; il cervello vince e ti tiene in sogno. Allora mi rilasso e mi sveglio. La chitarra è a posto, e per un attimo penso di essermi svegliato davvero. Nel mio letto, accanto a me, un corpo di donna. Vedo solo i capelli biondi che escono dalle coperte. La stanza era molto buia, e per qualche motivo penso che se fosse giorno dovrebbe esserci più luce. Penso di essermi svegliato in un sogno, giro la donna e inizio a fare l'amore con lei. Non la conosco, ma il suo dolce viso mi piace. È proprio il suo viso che dopo alcuni istanti inizia a cambiare in quello di un'altra donna, in quello di una mora, in quello di una giovane dal trucco ben curato, e di un'anziana dalle rughe scavate. Il "morphing" stile "Vanilla Sky" prosegue velocemente per una decina di volti, finché l'eccitazione scompare e voglio svegliarmi. Mi alzo di nuovo in piedi sul letto aumentando il controllo onirico. Vedo dalla finestra un albero dalle foglie bianche e volo, attraversando la finestra, verso di lui. Apro e chiudo gli occhi (probabilmente nel mondo reale) e mi ritrovo in camera mia. È giorno. Per qualche strano motivo, inizio a disporre sulla mia scrivania file di uva variopinta. Ce n'erano di tutti i colori, anche quelli meno naturali come il fucsia. Gli acini, però, non stavano sulla scrivania ma rotolavano per terra come se la scrivania fosse inclinata. Una voce femminile alle mie spalle mi dice che potrei farci un business. Mi sveglio.